Nel dopoguerra l’auto elettrica cadde nell’oblio più totale, i manifesti rivolti ad una classe agiata che ne elogiavano le sue qualità all’inizio del ’900 ormai erano un ricordo lontano. L’auto elettrica scomparve dalla circolazione associata al tempo delle restrizioni, un periodo che doveva essere superato per andare avanti e lasciarsi tutto alle spalle.
Solo alcuni esemplari BEV continuavano a circolare per un po’ data la loro funzione come mezzo di trasporto per la consegna in città e furono a loro volta sostituiti da veicoli endotermici. Eppure l’interesse per la trazione elettrica non è mai veramente scomparsa, e qui di seguito vi elenco delle vetture nate da delle persone che pensavano che un mondo di veicoli elettrici poteva funzionare.
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BEV Made in Japan
La fine della Seconda Guerra Mondiale spinse il Giappone alla mobilità elettrica a causa della scarsità del petrolio e l’elettricità era a quei tempi molto più disponibile dal momento che era generata dall’energia idrica. Il governo incoraggiò gli industriali a progettare veicoli che traggano la loro energia da batterie al piombo.
Tama E4S
Nissan risponderà a questo invito nel 1947 con l’automobile Tama E4S (dalla zona in cui era stata prodotta), una vettura stretta e alta con 2 porte e 4 posti secchi. Il motore elettrico di poco più di 3 kW di potenza, alimentato da una batteria da 36 V, poteva spostare la macchina fino alla fenomenale velocità di 35,2 km/h per un’autonomia che inizialmente ammontava a 65 km poi a un ottimo 100 km. Cifre sufficienti per l’epoca per proporlo come taxi.
Due pachi batteria posizionati nel pavimento dell’abitacolo in vani laterali con l’obiettivo di estrarre le batterie esauste e sostituite da quelle cariche e pronte all’uso.
Tama Senior EMS
Due anni dopo, apparve sotto forma di una berlina a 4 porte e 5 posti molto più attraente, la Tama Senior EMS. A bordo, 40 celle da 2 V che fece aumentare l’autonomia a 200 km, per una velocità massima superiore ai 55 km/h.
Nel 1947 fu proposta una versione pickup della Tama E4S, insomma un veicolo popolare in Giappone come taxi e camion fino agli inizi degli anni 50’ dal momento che lo scoppio della guerra di Corea fece salire alle stelle il prezzo del piombo mentre il controllo del carburante da parte degli Alleati fu rimosso nel 1952 e le auto endotermiche tornarono a dominare la strada come nel resto del mondo.
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La consapevolezza ecologica
Nel corso degli anni, l’auto è stata vista sia come un benefattore che come una minaccia ambientale, come un vantaggio per l’individualismo, la libertà e la liberazione e come la rovina della società moderna.
Renault Dauphine elettrica Made in America
Stati Uniti, 1959, nacque la l’automobile Henney Kilowatt progettata dalla National Union Electric Corporation e da Eureka Williams.
Russell Feldman, l’allora presidente della National Union Electric Corporation, proprietario della ditta di carrozzerie Henney e produttore di batterie per Exide Batteries, recuperò 100 Renault Dauphine ma senza propulsori, ne serbatoi o radiatori e nessun sistema di scarico. Per la cronaca, Henney costruiva i chassis utilizzando attrezzature e parti acquistate dalla Renault pertanto non erano auto francesi convertite ma piuttosto telai quasi identici costruiti negli Stati Uniti e modificati per espandere lo spazio del vano posteriore e anteriore.
Dal momento che il telaio era molto più leggero di altre auto sul mercato, si prestava bene all’inserimento di un motore elettrico della General Electric. Il regolatore di velocità che impiegava diodi e relè, l’elettronica di potenza che era a transistor, dava un plus a questa macchina futuristica per l’epoca ma i tempi di ricarica un po’ meco; 8-10 ore con la presa domestica da 110 volt.
Secondo la documentazione commerciale dell’epoca, esistevano due versioni di Henney Kilowatt:
Model A destinato all’uso urbano, a priori 8 unità prodotte. Pacco batteria da 72 V (12 batterie da 6 V) e 88 A, velocità da 56 a 64 km/h, autonomia da 48 a 64 km.
Modello B Pacco batteria da 84 volt (14 batterie da 6 V), velocità da 60 a 80 km/h, autonomia da 64 a 80 km.
Caratteristiche comuni: freni idraulici, una batteria da 12 volt (per accessori, illuminazione, ecc.), due colori disponibili (Montijo rosso – grigio) e peso a vuoto tra i 968 e i 1154 kg a seconda della versione e dell’equipaggiamento, 6 mesi di garanzia, opzione riscaldamento/sbrinamento, tempo di consegna 3 mesi.
37 Dauphine Kilowatt furono date ad una società di energia elettrica National Union Electric Corporation, e poche altre visto il prezzo poco “cheap” furono vendute a privati o a altre società che la utilizzavano come veicolo di servizio per un totale di 47 veicoli.
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Urbanina
Il Italia negli anni ’60, il duo composto dal marchese Piero Girolamo Bargagli Bardi Bandini e dal tecnico Narciso Cristiani, con l’aiuto di un gruppo di appassionati collaboratori; trasformarono l’ex limonaia di una villa settecentesca della campagna toscana in officina.
Nel capannone della villa di Poggio Adorno a Castelfranco di Sotto (Pisa), fu progettata e costruita la prima “micromacchina” elettrica italiana, omologata e prodotta in serie: l’Urbanina con una semplice “U” come logo.
Si trattava di una piccola micro-car da città (1960 mm m di lunghezza), assai avveniristica per l’epoca e concepita per affrontare il traffico cittadino. Una due posti, semplice da parcheggiare con un abitacolo dal quale scendere e salire con la massima comodità.
Per realizzarla si fece ricorso ad un telaio ad X, con le ruote dal diametro ridotto poste alle 4 estremità, sospensioni anteriori indipendenti con bracci oscillanti di tipo MacPherson e sospensioni posteriori indipendenti con ponte oscillante e barra stabilizzatrice. Una cabina rotante a 360° che rendeva possibile l’accesso da ogni posizione e al suo interno alloggiava il volante, il cruscotto e i due sedili per guidatore e passeggero.
Prima di passare all’elettrico i primi modelli circolanti già nel 1961 utilizzavano un motore termico di origine Lambretta 175, installato sotto la cabina con trazione sull’asse posteriore. Il serbatoio del carburante, la batteria al pb da 12V e le sospensioni erano situate sotto la piattaforma rotante.
Tre erano le diverse soluzioni intercambiabili di cabina; la “Base” che proponeva la semplice “tinozza” con eventuale parabrezza, il modello “Primavera” composta da una cabina in vimini, la “Berlinetta” proponeva un abitacolo chiuso in materiale plastico.
Una delle ultime versioni negli anni ’70, proponeva una cabina non più pivotante e derivata dalla struttura di un motocarro Ape della Piaggio, i giornalisti scherzosamente le daranno l’appellativo di “bombetta con le ruote”.
Per ottenere un veicolo silenzioso e dai consumi ridotti nel 1965 si affiancò al motore a benzina anche dei modelli puramente elettrici. Il BEV aveva un pacco batteria fornito dalla Tudor (Storia dell’auto elettrica – Parte #2: l’elettromobile), era composto da accumulatori in serie ed in parallelo, posto in un unico basamento che scivolava sulle guide poste sotto il telaio, consentiva una facile manutenzione e sostituzione. Il signor Italiano Fraccari della Cetas, contribuì all’impianto elettrico della macchina.
I primi modelli avevano un motore elettrico da 700W –36 V che in origine doveva essere il motore d’avviamento dei camion diesel del marchio Fiat, un pacco batteria da 100 Ah un’autonomia dichiarata di 40 km, i veicoli non superavano i 30 Km/h. Nei successivi modelli prese posto un motore Bosch da 1 kW 24V 170 Ah e successivamente da 2 kW 24 V 250 Ah e le vetturette a 40 km/h raggiungevano un’autonomia di 70 km.
Il cambio rimaneva lo stesso che quello montato sul prototipo a motore ma per la trasmissione si fece ricorso all’azienda Cetas di Santa Croce sull’Arno (PI), l’ing. Enrico Micheletti realizzò per l’Urbanina, un variatore di velocità a modulazione di ampiezza che consentiva di regolare la potenza del motore, rendendo la marcia più fluida.
Come lo riporta il sito dell’Associazione Urbanina, fu anche sperimentato un sistema che consentiva di recuperare l’energia prodotta dal motore in fase di decelerazione così da ricaricare gli accumulatori ma il progetto fu accantonato per i costi e difficoltà di reperire i componenti necessari.
In più di disporre di un trasformatore per ricaricare a casa, dal momento che le vetturette erano concepite per un utilizzo urbano al duo di inventori di Poggio Adorno venne la buona idea di predisporre in città delle colonnine di ricarica in AC e proposero il posizionamento nella Piazza dei Miracoli, a Pisa. La produzione in serie fu travagliata dalla necessità di portare miglioramenti e modifiche e l’ultimo
La produzione in serie fu travagliata dalla necessità di portare miglioramenti e modifiche, l’ultimo modello, la Urbanina “F” montava uno sterzo da una caratteristica angolatura, proponeva quattro veri posti e escludeva la cabina pivotante per una carrozzeria in lamiera stampata più funzionale che originale ma che permetteva di abbassare i costi di produzione e essere dunque più competitivi.
Il modello dell’Urbanina F non riscosse il successo sperato, la consapevolezza ambientale era agli albori, il prezzo dei carburanti fossili era economico, l’avversione degli italiani nei confronti della modernità rispetto alle tecnologie dell’epoca non poteva sposare la visione di una mobilità alternativa. Circa 200 a 400 Urbanine uscirono dal capannone della villa di Poggio Adorno.
Poche le “F” prodotte e che furono poi utilizzate per il progetto di Zagato che acquisì i diritti di produzione e commercializzazione, attrezzature e brevetti agli inizi degli anni ’70 mettendo cosi la parola fine a questa incredibile avventura del team di menti visionare.
Scamp
Negli 1965, la Scottish Aviation con sede a Prestwick, Scozia, volle affrontare la congestione e l’inquinamento nelle aree urbane creando la propria micro car elettrica con solo due sedili, 2m di lunghezza per 1m di larghezza.
La macchina era alimentata da batterie al piombo acido, aveva una velocità massima di 58 km/h e l’autonomia con una singola carica era di soli 30 km.
Nel tentativo di cambiare l’atteggiamento negativo del pubblico nei confronti delle auto elettriche, la Scottish Aviation aveva coinvolto la leggenda delle corse Stirling Moss per promuovere il veicolo.
La Scottish Aviation annullò il progetto di produzione in serie dopo aver riscontrato problemi di affidabilità durante i test drive, sia da parte delle sospensioni che del vano bagagli che si apriva inopinatamente con il rischio che la ruota di scorta fuoriuscisse, il motore elettrico per giunta risultò inaffidabile.
La Scamp rimase solo un prototipo e ne furono costruiti solo dodici esemplari. Nel 2021, una di queste macchine fu prestata al Museo del Transporto in vista della conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici a Glasgow nel 2021.
Nel 1966 il Congresso americano raccomandò la costruzione di veicoli elettrici per ridurre l’inquinamento atmosferico e anche nell’ottica che i combustibili provenienti da fonti non rinnovabili non erano inesauribili.
A partire dagli anni ’60, l’automobile era diventata per molti un male pubblico, la sua immagine positiva fu messa in causa e iniziavano a fioccare le domande sull’inquinamento dovuto all’oro nero, il rumore e il pericolo in caso di incidente. L’aria era carica di smog dentro e fuori dalle città americane come Los Angeles e New York.
L’automobile e l’ambiente
Nel 1966 a New York, nel giorno del Ringraziamento, il tempo fu caldo e una foschia di smog composta da anidride solforosa e monossido di carbonio avvolse la città. Quel fatidico giorno morirono circa 200 persone sia per l’aria inquinata che per il fumo di sigaretta. La causa di morte in più rapida crescita a New York negli anni ’60 era l’enfisema polmonare, i decessi per bronchite cronica erano aumentati vertiginosamente.
Electrovair II
La Chevrolet Electrovar era una “compatta” di seconda generazione con un nuovo design delle sospensioni per corrreggere i problemi di manovrabilità della prima Corvair.
Nel 1966 Chevrolet aveva scelto la Corvair II basata su un modello hardtop a quattro porte Monza, per il suo progetto di elettrificazione perché era l’auto più leggera della sua gamma (1.134 kg), con motore posteriore dunque perfetta per ricevere un motore elettrico nella parte posteriore e un pacco batterie nell’ampio bagagliaio anteriore.
L’Electrovair II, sembrava identica a un normale Corvair con un motore a CA da 115 cavalli.
Il pacco batteria era composto da celle all’ossido d’argento, tensione totale di 532 V.
La conversione fece aumentare di 454 kg il peso a vuoto dell’auto, il che la rendeva pesante come una Chevrolet Impala.
Ford “Comuta” Micro EV
Nel 1967, il centro di ricerca Ford of Britain a Dunton, nell’Essex (Inghilterra), presentò la sua idea di auto elettrica, la “Comuta”.
Si trattava di una vettura dalle ridotte dimensioni lunga 2,03 m, larga 1,26 m, alta 1,42 m con un passo di 1,36 m progettata per trasportare due adulti nella parte anteriore e due bambini, oppure due adulti con bagagli o borse della spesa. Con un peso a vuoto di 544 kg e una velocità massima 64 km/h per un’autonomia dichiarata di 64 km, era la micro car ideale per destreggiarsi in città attraverso il traffico e parcheggiare facilmente.
Una coppia di motori elettrici CC da 5 CV ciascuno e forniti dalla British Motor Corporation (BMC) permettevano la trazione al posteriore. La city car era alimentata da un pacco batteria posizionato sotto ai sedili e composto da quattro accumulatori al pb da 12 V per un totale di 85 Ah. Disponeva della frenata rigenerativa, di freni a tamburo per le quattro ruote e poteva arrivare ad una velocità massima di 64 km/h con un’autonomia dichiarata di 64 km.
La vetturetta aveva una vaga somiglianza con la Ford Escort Mark I, la sua carrozzeria in vetroresina e plastica era stata concepita dal designer della leggendaria Mini; Alec Issigonis.
Il telaio era realizzato in lamiera d’acciaio assemblato con saldatura a punti, su di esso si inserivano i montati, il volante, la pedaliera, la carrozzeria, i paraurti, i tubi di riscaldamento e ventilazione interna, il pacco batteria, i motori, le sospensioni e gli ammortizzatori.
Secondo l’azienda Ford, c’era ancora tanto da fare prima di poterla produrre in serie e in grandi quantità, soprattutto nell’immagazzinare dell’energia elettrica sufficiente. Negli U.S.A. si effettuavano studi per l’adattamento alla “Comuta” di batterie sodio-zolfo, che avrebbero permesso di dare una maggiore autonomia al veicolo, ma c’erano troppi problemi da risolvere e soprattutto quello riguardante il costo nel campo elettrochimico. Non si poteva attingere a dei pacchi batteria agli ioni di litio come quelli che abbiamo oggigiorno e pertanto la micro EV rimase allo stadio di progetto e si parla di due a sei prototipi costruiti (i resoconti differiscono), almeno una esiste e si trova al Science Museum di Londra.
49° Salone Internazionale dell’Automobile di Torino
Nel 1967 durante la fiera alcune aziende italiane tra le quali Ghia, Giannini, Urbanina, presentarono un’auto elettrica per uso urbano
Queste “curiosità” del Salone di Torino attirarono molti amatori del genere. Bisogna dire che la loro tecnica era delle più classiche: motore elettrico alimentato da pacco batteria con accumulatori al piombo. La 500 elettrica esposta da Antonio Giannini (officine Giannini), era un adattamento che richiamava le soluzioni adottate da molti costruttori durante gli anni ’40 dell’occupazione (seconda guerra mondiale).
Fiat 500 Elettrica
Con motore elettrico da 3Kw (4 CV), impianto a 48 Volt, batterie al piombo disposte a due per due sia nel cofano che a fianco del motore e a destra del sedile posteriore. La vettura era disponibile solo per il guidatore e due passeggeri. Il peso a vuoto era di 530 kg la velocità massima era di 50 km/h e l’autonomia dichiarata di 100 Km.
1967 DeTomaso Rowan (Ghia)
Tra il 1967 e 1970, la creazione più insolita di DeTomaso è stata un’auto elettrica da città.
La Rowan della Ghia con telaio DeTomaso, progettata da Giorgetto Giugiaro, nefurono costruite solo 3 da usare negli eventi come vetrina tecnologica. Ogni ruota posteriore era azionata dal proprio motore elettrico in CC, impianto a 48 Volt, batterie al piombo disposte lungo tutta la vettura per distribuire uniformemente il peso. l’autonomia dichiarata raggiungeva i 300 km e la velocità massima era di 70 km /h.
Tra le auto esposte al 49° Salone Internazionale dell’Automobile di Torino, l’Urbanina, più elaborata, merita un’attenzione particolare, non per la sua modalità di trazione che rimane classica, ma per il suo design generale che è fuori dai soliti sentieri battuti e soprattutto costruita in serie a differenza dei competitor e lo stesso vale per la sua originale piccola carrozzeria.
Delta
Nel 1968, General Electric mostrò cosa poteva fare creando un prototipo di auto elettrica sperimentale chiamata Delta.
L’auto, sviluppata da Bruce Laumeister del GE Research and Development Center, poteva raggiungere i 64 km/h e aveva una autonomia di 64 km al posto delle classiche batterie al piombo utilizzava quelle al nichel-ferro. A seguito dei test si ritenne che ciò che serviva all’auto elettrica per avere una svolta seria ed essere costruita in serie era una nuova tecnologia della batteria in modo da migliorare tutto dal costo del veicolo finale, il tempo dei cicli di ricarica, la capacità, la durata, l’autonomia e la tolleranza alle temperature ambientali tra caldo e freddo.
Enfield 465
Negli anni ’60, Enfield Automotive era un produttore britannico di auto elettriche a sua volta membro del gruppo Enfield di proprietà del milionario greco Giannis Goulandris.
Il 10 ottobre 1969, fu annunciata la Enfield Electric Town Car 465, una piccola auto elettrica 2 posti e carrozzeria in plastica ABS su un telaio tubolare in acciaio. Le due porte laterali erano scorrevoli e la porta del vano bagagli era incernierato. Velocità massima di 65 km/h, un’autonomia dichiarata di 55 km, un pacco batteria da 48V e con un motore in CC da 3 kW (4,65 CV). Essendo solo un prototipo a scopo urbano, furono costruiti solo tre esemplari.
Conclusione
Nel 1965, Indro Montanelli intitolò il suo articolo apparso sulle pagine della Domenica del Corriere: “i Robinson dell’industria italiana” (pag. 5), paragonando il marchese Bargagli e Narciso Cristiani nella villa di Poggio Adorno al naufrago Robinson Crusoe che, sperduto in un’isola deserta e privo di ogni aiuto, dovette costruirsi tutto da solo. Tanto il grande Montanelli aveva percepito il disinteresse del mondo industriale dell’automobile ormai assuefatto dai carburanti fossili e motori endotermici.
Negli anni ’70, il modulo lunare suscitò l’interesse pubblico per la mobilità elettrica e l’avvento dell’auto elettrica fu giustificato anche dall’esplosione del prezzo del carburante ma per saperne di più, vi invito a leggere il capitolo successivo di questa incredibile saga.
➡️ Puntata successiva: Storia dell’auto elettrica – Parte #5: l’elettromobile
Ancora non è finita qui! Continuate a seguirci.
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